MATERIALI DA CONSULTARE

Il teatro epico di Bertolt Brecht. Prof.Francesco Fiorentino

mercoledì 18 settembre 2013

DIALOGO DI MALAMBRUNO E DI FARFARELLO


DIALOGO DI MALAMBRUNO E DI FARFARELLO da Operette Morali di Giacomo Leopardi

Malambruno: Spiriti d'abisso, Farfarello, Ciriatto, Baconero, Astarotte, Alichino, e comunque siete chiamati; io vi scongiuro nel nome di Belzebù, e vi comando per la virtù dell'arte mia, che può sgangherare la luna, e inchiodare il sole a mezzo il cielo: venga uno di voi con libero comando del vostro principe e piena potestà di usare tutte le forze dell'inferno in mio servigio.
Farfarello: Eccomi.
Malambruno: Chi sei?
Farfarello: Farfarello, a' tuoi comandi.
Malambruno: Rechi il mandato di Belzebù?
Farfarello: Sì recolo; e posso fare in tuo servigio tutto quello che potrebbe il Re proprio, e più che non potrebbero tutte l'altre creature insieme.
Malambruno: Sta bene. Tu m'hai da contentare d'un desiderio.
Farfarello: Sarai servito. Che vuoi? nobiltà maggiore di quella degli Atridi?
Malambruno: No.
Farfarello: Più ricchezze di quelle che si troveranno nella città di Manoa quando sarà scoperta?
Malambruno: No.
Farfarello: Un impero grande come quello che dicono che Carlo quinto si sognasse una notte?
Malambruno: No.
Farfarello: Recare alle tue voglie una donna più salvatica di Penelope?
Malambruno: No. Ti par egli che a cotesto ci bisognasse il diavolo?
Farfarello: Onori e buona fortuna così ribaldo come sei?
Malambruno: Piuttosto mi bisognerebbe il diavolo se volessi il contrario.
Farfarello: In fine, che mi comandi?
Malambruno: Fammi felice per un momento di tempo.
Farfarello: Non posso.
Malambruno: Come non puoi?
Farfarello: Ti giuro in coscienza che non posso.
Malambruno: In coscienza di demonio da bene.
Farfarello: Sì certo. Fa conto che vi sia de' diavoli da bene come v'è degli uomini.
Malambruno: Ma tu fa conto che io t'appicco qui per la coda a una di queste travi, se tu non mi ubbidisci subito senza più parole.
Farfarello: Tu mi puoi meglio ammazzare, che non io contentarti di quello che tu domandi.
Malambruno: Dunque ritorna tu col mal anno, e venga Belzebù in persona.
Farfarello: Se anco viene Belzebù con tutta la Giudecca e tutte le Bolge, non potrà farti felice né te né altri della tua specie, più che abbia potuto io.
Malambruno: Né anche per un momento solo?
Farfarello: Tanto è possibile per un momento, anzi per la metà di un momento, e per la millesima parte; quanto per tutta la vita.
Malambruno: Ma non potendo farmi felice in nessuna maniera, ti basta l'animo almeno di liberarmi dall'infelicità?
Farfarello: Se tu puoi fare di non amarti supremamente.
Malambruno: Cotesto lo potrò dopo morto.
Farfarello: Ma in vita non lo può nessun animale: perché la vostra natura vi comporterebbe prima qualunque altra cosa, che questa.
Malambruno: Così è.
Farfarello: Dunque, amandoti necessariamente del maggiore amore che tu sei capace, necessariamente desideri il più che puoi la felicità propria; e non potendo mai di gran lunga essere soddisfatto di questo tuo desiderio, che è sommo, resta che tu non possi fuggire per nessun verso di non essere infelice.
Malambruno: Né anco nei tempi che io proverò qualche diletto; perché nessun diletto mi farà né felice né pago.
Farfarello: Nessuno veramente.
Malambruno: E però, non uguagliando il desiderio naturale della felicità che mi sta fisso nell'animo, non sarà vero diletto; e in quel tempo medesimo che esso è per durare, io non lascerò di essere infelice.
Farfarello: Non lascerai: perché negli uomini e negli altri viventi la privazione della felicità, quantunque senza dolore e senza sciagura alcuna, e anche nel tempo di quelli che voi chiamate piaceri, importa infelicità espressa.
Malambruno: Tanto che dalla nascita insino alla morte, l'infelicità nostra non può cessare per ispazio, non che altro, di un solo istante.
Farfarello: Sì: cessa, sempre che dormite senza sognare, o che vi coglie uno sfinimento o altro che v'interrompa l'uso dei sensi.
Malambruno: Ma non mai però mentre sentiamo la nostra propria vita.
Farfarello: Non mai.
Malambruno: Di modo che, assolutamente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere.
Farfarello: Se la privazione dell'infelicità è semplicemente meglio dell'infelicità.
Malambruno: Dunque?
Farfarello: Dunque se ti pare di darmi l'anima prima del tempo, io sono qui pronto per portarmela.

DIALOGO DI UN FOLLETTO E DI UNO GNOMO


DIALOGO DI UN FOLLETTO E DI UNO GNOMO da Operette Morali di giacomo Leopardi

Folletto: Oh sei tu qua, figliuolo di Sabazio? Dove si va?
Gnomo: Mio padre m'ha spedito a raccapezzare che diamine si vadano macchinando questi furfanti degli uomini; perché ne sta con gran sospetto, a causa che da un pezzo in qua non ci danno briga, e in tutto il suo regno non se ne vede uno. Dubita che non gli apparecchino qualche gran cosa contro, se però non fosse tornato in uso il vendere e comperare a pecore, non a oro e argento; o se i popoli civili non si contentassero di polizzine per moneta, come hanno fatto più volte, o di paternostri di vetro, come fanno i barbari; o se pure non fossero state ravvalorate le leggi di Licurgo, che gli pare il meno credibile.
Folletto: Voi gli aspettate invan: son tutti morti, diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i personaggi.
Gnomo: Che vuoi tu inferire?
Folletto: Voglio inferire che gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta.
Gnomo: Oh cotesto è caso da gazzette. Ma pure fin qui non s'è veduto che ne ragionino.
Folletto: Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più gazzette?
Gnomo: Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le nuove del mondo?
Folletto: Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l'uno all'altro come uovo a uovo.
Gnomo: Né anche si potrà sapere a quanti siamo del mese, perché non si stamperanno più lunari.
Folletto: Non sarà gran male, che la luna per questo non fallirà la strada.
Gnomo: E i giorni della settimana non avranno più nome.
Folletto: Che, hai paura che se tu non li chiami per nome, che non vengano? o forse ti pensi, poiché sono passati, di farli tornare indietro se tu li chiami?
Gnomo: E non si potrà tenere il conto degli anni.
Folletto: Così ci spacceremo per giovani anche dopo il tempo; e non misurando l'età passata, ce ne daremo meno affanno, e quando saremo vecchissimi non istaremo aspettando la morte di giorno in giorno.
Gnomo: Ma come sono andati a mancare quei monelli?
Folletto: Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l'un l'altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell'ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male.
Gnomo: A ogni modo, io non mi so dare ad intendere che tutta una specie di animali si possa perdere di pianta, come tu dici.
Folletto: Tu che sei maestro in geologia, dovresti sapere che il caso non è nuovo, e che varie qualità di bestie si trovarono anticamente che oggi non si trovano, salvo pochi ossami impietriti. E certo che quelle povere creature non adoperarono niuno di tanti artifizi che, come io ti diceva, hanno usato gli uomini per andare in perdizione.
Gnomo: Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli.
Folletto: E non volevano intendere che egli è fatto e mantenuto per li folletti.
Gnomo: Tu folleggi veramente, se parli sul sodo.
Folletto: Perché? io parlo bene sul sodo.
Gnomo: Eh, buffoncello, va via. Chi non sa che il mondo e fatto per gli gnomi?
Folletto: Per gli gnomi, che stanno sempre sotterra? Oh questa e la più bella che si possa udire. Che fanno agli gnomi il sole, la luna, l'aria, il mare, le campagne?
Gnomo: Che fanno ai folletti le cave d'oro e d'argento, e tutto il corpo della terra fuor che la prima pelle?
Folletto: Ben bene, o che facciano o che non facciano, lasciamo stare questa contesa, che io tengo per fermo che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie. E però ciascuno si rimanga col suo parere, che niuno glielo caverebbe di capo: e per parte mia ti dico solamente questo, che se non fossi nato folletto, io mi dispererei.
Gnomo: Lo stesso accadrebbe a me se non fossi nato gnomo. Ora io saprei volentieri quel che direbbero gli uomini della loro presunzione, per la quale, tra l'altre cose che facevano a questo e a quello, s'inabissavano le mille braccia sotterra e ci rapivano per forza la roba nostra, dicendo che ella si apparteneva al genere umano, e che la natura gliel'aveva nascosta e sepolta laggiù per modo di burla, volendo provare se la troverebbero e la potrebbero cavar fuori.
Folletto: Che maraviglia? quando non solamente si persuadevano che le cose del mondo non avessero altro uffizio che di stare al servigio loro, ma facevano conto che tutte insieme, allato al genere umano, fossero una bagattella. E però le loro proprie vicende le chiamavano rivoluzioni del mondo, e le storie delle loro genti, storie del mondo: benché si potevano numerare, anche dentro ai termini della terra, forse tante altre specie, non dico di creature, ma solamente di animali, quanti capi d'uomini vivi: i quali animali, che erano fatti espressamente per coloro uso, non si accorgevano però mai che il mondo si rivoltasse.
Gnomo: Anche le zanzare e le pulci erano fatte per benefizio degli uomini?
Folletto: Sì erano; cioè per esercitarli nella pazienza, come essi dicevano.
Gnomo: In verità che mancava loro occasione di esercitar la pazienza, se non erano le pulci.
Folletto: Ma i porci, secondo Crisippo , erano pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le cucine e le dispense degli uomini, e, acciocché non imputridissero, conditi colle anime in vece di sale.
Gnomo: Io credo in contrario che se Crisippo avesse avuto nel cervello un poco di sale in vece dell'anima, non avrebbe immaginato uno sproposito simile.
Folletto: E anche quest'altra è piacevole; che infinite specie di animali non sono state mai viste né conosciute dagli uomini loro padroni; o perché elle vivono in luoghi dove coloro non misero mai piede, o per essere tanto minute che essi in qualsivoglia modo non le arrivavano a scoprire. E di moltissime altre specie non se ne accorsero prima degli ultimi tempi. Il simile si può dire circa al genere delle piante, e a mille altri. Parimente di tratto in tratto, per via de' loro cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per migliaia e migliaia d'anni, non avevano mai saputo che fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie: perché s'immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell'alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende.
Gnomo: Sicché in tempo di state, quando vedevano cadere di quelle fiammoline che certe notti vengono giù per l'aria, avranno detto che qualche spirito andava smoccolando le stelle per servizio degli uomini.
Folletto: Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi.
Gnomo: E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie.
Folletto: E il sole non s'ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch'ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo.

DIALOGO DELLA MODA E DELLA MORTE

DIALOGO DELLA MODA E DELLA MORTE da Operette Morali di Giacomo Leopardi


Moda: Madama Morte, madama Morte.
Morte: Aspetta che sia l'ora, e verrò senza che tu mi chiami.
Moda: Madama Morte.
Morte: Vattene col diavolo. Verrò quando tu non vorrai.
Moda: Come se io non fossi immortale.
Morte: Immortale? Passato è già più che 'lmillesim'anno che sono finiti i tempi degl'immortali.
Moda: Anche Madama petrarcheggia come fosse un lirico italiano del cinque o dell'ottocento?
Morte: Ho care le rime del Petrarca, perché vi trovo il mio Trionfo, e perché parlano di me quasi da per tutto. Ma in somma levamiti d'attorno.
Moda: Via, per l'amore che tu porti ai sette vizi capitali, fermati tanto o quanto, e guardami.
Morte: Ti guardo.
Moda: Non mi conosci?
Morte: Dovresti sapere che ho mala vista, e che non posso usare occhiali, perché gl'Inglesi non ne fanno che mi valgano, e quando ne facessero, io non avrei dove me gl'incavalcassi.
Moda: Io sono la Moda, tua sorella.
Morte: Mia sorella?
Moda: Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducità?
Morte: Che m'ho a ricordare io che sono nemica capitale della memoria.
Moda: Ma io me ne ricordo bene; e so che l'una e l'altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benché tu vadi a questo effetto per una strada e io per un'altra.
Morte: In caso che tu non parli col tuo pensiero o con persona che tu abbi dentro alla strozza, alza più la voce e scolpisci meglio le parole; che se mi vai borbottando tra' denti con quella vocina da ragnatelo, io t'intenderò domani, perché l'udito, se non sai, non mi serve meglio che la vista.
Moda: Benché sia contrario alla costumatezza, e in Francia non si usi di parlare per essere uditi, pure perché siamo sorelle, e tra noi possiamo fare senza troppi rispetti, parlerò come tu vuoi. Dico che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v'appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io fo che essi v'improntino per bellezza; sformare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni, mettendo per costume che tutti gli uomini del paese abbiano a portare il capo di una figura, come ho fatto in America e in Asia ; storpiare la gente colle calzature snelle; chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla strettura dei bustini; e cento altre cose di questo andare. Anzi generalmente parlando, io persuado e costringo tutti gli uomini gentili a sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi, e spesso dolori e strazi, e qualcuno a morire gloriosamente, per l'amore che mi portano. Io non vo' dire nulla dei mali di capo, delle infreddature, delle flussioni di ogni sorta, delle febbri quotidiane, terzane, quartane, che gli uomini si guadagnano per ubbidirmi, consentendo di tremare dal freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio, difendersi le spalle coi panni lani e il petto con quei di tela, e fare di ogni cosa a mio modo ancorché sia con loro danno.
Morte: In conclusione io ti credo che mi sii sorella e, se tu vuoi, l'ho per più certo della morte, senza che tu me ne cavi la fede del parrocchiano.' Ma stando così ferma, io svengo; e però, se ti dà l'animo di corrermi allato, fa di non vi crepare, perch'io fuggo assai, e correndo mi potrai dire il tuo bisogno; se no, a contemplazione della parentela, ti prometto, quando io muoia, di lasciarti tutta la mia roba, e rimanti col buon anno.
Moda: Se noi avessimo a correre insieme il palio, non so chi delle due si vincesse la prova, perché se tu corri, io vo meglio che di galoppo; e a stare in un luogo, se tu ne svieni, io me ne struggo. Sicché ripigliamo a correre, e correndo, come tu dici, parleremo dei casi nostri.
Morte: Sia con buon'ora. Dunque poiché tu sei nata dal corpo di mia madre, saria conveniente che tu mi giovassi in qualche modo a fare le mie faccende.
Moda: Io l'ho fatto già per l'addietro più che non pensi. Primieramente io che annullo o stravolgo per lo continuo tutte le altre usanze, non ho mai lasciato smettere in nessun luogo la pratica di morire, e per questo vedi che ella dura universalmente insino a oggi dal principio del mondo.
Morte: Gran miracolo, che tu non abbi fatto quello che non hai potuto!
Moda: Come non ho potuto? Tu mostri di non conoscere la potenza della moda.
Morte: Ben bene: di cotesto saremo a tempo a discorrere quando sarà venuta l'usanza che non si muoia. Ma in questo mezzo io vorrei che tu da buona sorella, m'aiutassi a ottenere il contrario più facilmente e più presto che non ho fatto finora.
Moda: Già ti ho raccontate alcune delle opere mie che ti fanno molto profitto. Ma elle sono baie per comparazione a queste che io ti vo' dire. A poco per volta, ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell'animo, e più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte. E quando che anticamente tu non avevi altri poderi che fosse e caverne, dove tu seminavi ossami e polverumi al buio, che sono semenze che non fruttano; adesso hai terreni al sole; e genti che si muovono e che vanno attorno co' loro piedi, sono roba, si può dire, di tua ragione libera, ancorché tu non le abbi mietute, anzi subito che elle nascono. Di più, dove per l'addietro solevi essere odiata e vituperata, oggi per opera mia le cose sono ridotte in termine che chiunque ha intelletto ti pregia e loda, anteponendoti alla vita, e ti vuol tanto bene che sempre ti chiama e ti volge gli occhi come alla sua maggiore speranza. Finalmente perch'io vedeva che molti si erano vantati di volersi fare immortali, cioè non morire interi, perché una buona parte di sé non ti sarebbe capitata sotto le mani, io quantunque sapessi che queste erano ciance, e che quando costoro o altri vivessero nella memoria degli uomini, vivevano, come dire, da burla, e non godevano della loro fama più che si patissero dell'umidità della sepoltura; a ogni modo intendendo che questo negozio degl'immortali ti scottava, perché parea che ti scemasse l'onore e la riputazione, ho levata via quest'usanza di cercare l'immortalità, ed anche di concederla in caso che pure alcuno la meritasse. Di modo che al presente, chiunque si muoia, sta sicura che non ne resta un briciolo che non sia morto, e che gli conviene andare subito sotterra tutto quanto, come un pesciolino che sia trangugiato in un boccone con tutta la testa e le lische. Queste cose, che non sono poche né piccole, io mi trovo aver fatte finora per amor tuo, volendo accrescere il tuo stato nella terra, com'è seguito. E per quest'effetto sono disposta a far ogni giorno altrettanto e più; colla quale intenzione ti sono andata cercando; e mi pare a proposito che noi per l'avanti non ci partiamo dal fianco l'una dell'altra, perché stando sempre in compagnia, potremo consultare insieme secondo i casi, e prendere migliori partiti che altrimenti, come anche mandarli meglio ad esecuzione.
Morte: Tu dici il vero, e così voglio che facciamo.